Siccome il 9 maggio ricorre il 41° anniversario della morte di Aldo Moro, ci tengo a condividere un lavoro di ricerca che ho portato avanti anni fa, per fare onore alla sua memoria.
Aldo Romeo Luigi Moro nacque a Maglie il 23 settembre 1916, una città dell’entroterra pugliese in provincia di Lecce, dove suo padre, Renato Moro, originario di un paese vicino, si era trasferito per insegnare come maestro elementare . La madre, Fida Stinchi, si occupava a tempo pieno dei cinque figli. Fin dalla giovinezza, venne descritto come un tenace lavoratore, un ragazzo estraneo all’esibizionismo, dal carattere chiuso, austero e riservat. Dopo alcuni anni di permanenza a Maglie, la famiglia Moro traslocò a Taranto, dove il padre aveva ottenuto un incarico come direttore didattico e dove Aldo terminò le scuole pubbliche e frequentò il Liceo Classico Archita. Nel 1934, quando Aldo aveva diciott’anni, la famiglia si spostò nuovamente, questa volta a Bari. Renato Moro coronava la sua carriera ottenendo un incarico di alta responsabilità negli uffici romani del ministero della Pubblica Istruzione. Alla città Aldo si affezionò in fretta e il capoluogo pugliese gli offrì innumerevoli possibilità. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. I suoi colleghi lo descrivevano come uno “sgobbone”, serio in tutto e per tutto. Qui conobbe Eleonora Chiavarelli, che poi sarebbe diventata moglie e compagna di vita. L’Italia viveva allora un momento difficile, dilaniata e divisa dal fascismo. Ben presto, però, anche in simili circostanze, Moro riuscì a trovare un proprio posto nel sistema, si iscrisse alla Federazione universitaria cattolica (FUCI), che riconobbe come un’oasi preziosa e indipendente nel bel mezzo del regime totalitario. L’organizzazione fucina non assumeva posizioni di chiaro e netto contrasto verso il fascismo; a partire dal 1931, infatti, in seguito al deteriorarsi dei rapporti fra Chiesa e Stato fascista, essa aveva dovuto abbandonare ogni aspirazione in campo politico, ritagliandosi un proprio spazio essenzialmente in ambito religioso e culturale. Far parte della FUCI, dunque, voleva dire fare una scelta indipendente, rinunciando a più facili carriere garantite dal partito. Moro non si lasciò coinvolgere in maniera particolare dalla cerchia dei più prestigiosi Gruppi universitari fascisti. Pur essendosi guadagnato la stima e la protezione del professore di diritto penale, Biagio Petrocelli, che, insieme al suo assistente, Armando Regina, era uno dei maggiori intellettuali fascisti della società barese, non divenne mai attivo nelle organizzazioni fasciste. Non ottenne mai cariche associative nei GUF, né diede il suo contributo con articoli per la stampa universitaria fascista. La sua partecipazione ai Littorali della cultura e dell’arte nel ’37 e, successivamente, al concorso di Dottrina del fascismo nel ’38, nei quali si classificò rispettivamente al settimo e al quinto posto, non si deve a una sua personale affezione per gli ideali fascisti, ma piuttosto al legame sempre più forte che egli stava instaurando in quegli anni con la cattedra di diritto penale. L’atteggiamento di Moro verso il regime era, in realtà, decisamente duro, come possiamo dedurre da alcune ricostruzioni di quanto affermò durante lo svolgimento dei concorsi e da qualche suo intervento sulla stampa della FUCI. Il futuro statista non fu, tra l’altro, l’unico fucino a concorrere ai Littorali, prendendo le debite distanze dalle posizioni del regime de-politicizzando il significato delle gar. Il ’39 fu un anno decisivo sotto ogni prospettiva: non solo perché Moro divenne presidente nazionale della FUCI e conseguì la laurea in Giurisprudenza con una tesi su “la capacità giuridica penale”, ma anche e soprattutto perché Mussolini e l’Italia si preparavano alla guerr. Nel bel mezzo della tempesta, Moro si assunse la responsabilità, che l’incarico di presidente nazionale della FUCI gli attribuiva, e, alla stregua di altri intellettuali dell’epoca, incominciò la sua propaganda pacifista. Fu questo forse il primo vero momento in cui egli scopriva un profondo interesse per la mediazione e la cooperazione, due concetti che poi avrebbe approfondito in seguito, dopo aver ottenuto il primissimo incarico al ministero degli Esteri. La “pace” per lui era quasi un fatto esistenziale, una parola che indicava da sola un intero programma, il quale consisteva nel superamento delle lotte individualistiche in virtù di un richiamo a ideali più universalistici, così diversi e antitetici rispetto alle ideologie e alle simbologie promosse dal regime. In occasione del congresso nazionale della FUCI, tenutosi nel settembre del ’39, dichiarò addirittura che l’assenza di pace pregiudicava la mancanza di libertà nell’uomo e viceversa; aggiungeva anche che, allo scopo di garantire l’approdo a una realtà dominata dal bene, era necessario dar lustro ai propri ideali; invitava così ogni fucino a farsi portavoce della verità della storia e a diventare operatore di pace. Il suo accorato appello, tuttavia, cadde nel vuoto e il paese si avviò presto alla guerra. Nel 1941, Moro diventò professore universitario e, contemporaneamente, venne chiamato alle armi per il servizio di leva. La reggenza nazionale della FUCI passò a quel punto a un giovane Giulio Andreotti, nel quale Moro nutriva una profonda fiducia e con cui intrattenne sin da subito una fittissima corrispondenza per dispensare consigli e suggerimenti. Nel 1942 abbandonava definitivamente l’incarico. Nel novembre 1943, Moro tentò l’ingresso nella DC, che gli risultò però difficile. Le sue idee si ponevano in chiara discontinuità con quelle del segretario della DC barese, Natale Lojacono, ex popolare, ancora particolarmente legato ai principi della tradizione sturziana. Questa netta differenza di vedute si trasformò in scontro aperto, dopo l’uscita di un nuovo periodico, la ‹‹Rassegna››, sostenuto dalle forze militari alleate e di cui Moro era uno dei principali ispiratori. Mentre Lojacono e i suoi sostenitori erano orientati su posizioni radicalmente anti-badogliane e chiaramente repubblicane, al contrario, la ‹‹Rassegna›› raccoglieva attorno a sé un gruppo di giovani intellettuali di stampo prevalentemente liberale, che si faceva portavoce di un progetto di unione e di concordia civile da realizzare indipendentemente dall’appartenenza a uno specifico partito. Dopo l’uscita della rivista, la situazione già complicata, interna al movimento cattolico barese, precipitò ulteriormente. Lojacono arrivò ad accusare Moro e gli altri attivisti della Rassegna di atteggiamenti e inclinazioni filo-monarchici, ‹‹reazionari››, ‹‹borbonici››, persino ‹‹clerico-fascisti››. Moro, per parte sua, disapprovava l’alleanza nel CLN tra democristiani, socialisti e comunisti. Un evento in particolare compromise provvisoriamente l’ingresso del futuro statista nella DC: il 27 gennaio 1944 si tenne a Bari il congresso dei rappresentanti provinciali della DC del Mezzogiorno. Il clima era particolarmente delicato. Lojacono aveva tentato un colpo di mano, formulando la precisa richiesta di abdicazione del re, suscitando l’indignazione e le reazioni delle sezioni democristiane di Brindisi, Lecce e Taranto. Come narra Antonio Rossano, sulla base delle ricostruzioni di alcuni dei presenti, Moro prese la parola durante la prima riunione della mattina, invitato dall’industriale Attilio Germano, figura di spicco del mondo cattolico locale. Pur essendo semplicemente investito della carica di responsabile della FUCI per il Sud e non avendo formalmente diritto di parola, si espresse in favore della tolleranza e invitò (facendo evidenti riferimenti alle posizioni di Lojacono e dei suoi) a non identificare la DC col vecchio popolarismo. I rapporti con il segretario barese della DC subirono, a quel punto, un tracollo decisivo e il giovane giurista cattolico decise spontaneamente di non aderire al partito, per non stare alla presenza di Lojacono. Nei mesi successivi, continuò ad esprimere sulla ‹‹Rassegna›› le proprie considerazioni. Una troneggiava fra tutte: il fascismo andava superato, non ritornando indietro, ma andando avanti; bisognava riuscire a essere uomini migliori rispetto al passato. Tale posizione lo consacrava irrevocabilmente quale nuovo punto di riferimento alternativo a Lojacono. I vertici della DC furono così chiamati a intervenire e a scegliere fra lui e Moro. La scelta fu però sfavorevole a quest’ultimo. In seguito alla sua esclusione dalle file della Democrazia Cristiana, il distacco col mondo dei partiti divenne quasi critico. Non vedeva la politica come una via praticabile, ma come un quadro dai contorni confusi. Egli aveva tuttavia un fortissimo senso mistico del progresso storico, che era riuscito a far collimare con le concezioni dell’Umanesimo integrale, che aveva ereditato da Maritain. Alla luce di tali concetti, avrebbe voluto rivisitare la struttura stessa della DC, che percepiva alla stregua di un abito stretto, un organo ‹‹insufficiente›› ‹‹ad esprimere i complessi punti di vista sociali e politici degli ambienti cattolici››. Il cristianesimo integrale costituiva la soluzione, l’elemento chiave, per avviare un processo che ponesse la supremazia della politica in discussione. La latente vocazione politica di Moro fu dunque risvegliata un po’ per caso, in un momento in cui lui stesso ormai aveva accantonato l’idea di far parte di quel mondo che riteneva gli fosse tanto estraneo.
A cura di Franny.