Nel giugno 1976, veniva varato un nuovo esecutivo monocolore, il governo delle ‹‹astensioni parallele››, e alla sua guida veniva posto Andreotti. Fu un esperimento singolare, frutto delle trattative continue che il politico di Maglie aveva intrapreso coi vari partiti costituzionali. Esso consisteva in un consenso camuffato da dissenso, perché espresso attraverso l’astensione. La novità risiedeva nell’assenso del PCI, che, per la prima volta dopo trent’anni, dato il clima di emergenza nazionale, non si schierava all’opposizione e alla votazione di fiducia imitava gli altri partiti.
Agli inizi del 1978, vista l’inconsistenza dei risultati raggiunti, il sistema appena confezionato entrava in crisi e PCI e PSI iniziavano a manifestare la propria insoddisfazione[1]. In gennaio, nell’ambito della Direzione del PCI, il segretario Berlinguer, insistette sull’indispensabilità del partito comunista per la ripresa del paese al punto da proporre un governo PCI-PSI-PSDI-PRI, con l’astensione della DC. Seguì a quel punto la controproposta democristiana, che prevedeva l’istituzione di un nuovo governo DC con la partecipazione del PCI alla maggioranza, attuabile attraverso una rivisitazione del programma politico[2]. Oltre ai liberali, che si erano subito opposti a un eventuale ingresso del PCI nella maggioranza, anche all’interno della stessa DC si formarono profonde resistenze[3].
Il 28 febbraio, lo statista pugliese spese il suo ultimo discorso per cercare di incoraggiare i colleghi democristiani ad avere una visione d’insieme più ampia, in virtù del fatto che le elezioni avevano portato alla luce due vincitori, uno dei quali era il PCI. Affermava che la situazione era cambiata rispetto al passato e ancora una volta la DC era chiamata a dimostrare la sua coerenza e flessibilità. Sosteneva che in un tale clima di emergenza non si poteva mantenere il PCI all’opposizione, che andavano fatti sacrifici, anche a discapito degli schemi classici di maggioranza-minoranza, per il benessere dei cittadini. Per la prima volta sembrava percepire dinanzi a sé un orizzonte incerto e nebuloso e si apprestava a risolverlo, a poco a poco, con il presentarsi degli avvenimenti. Il coraggio della DC stava nel fare una scelta coraggiosa. Moro rilanciava la politica del confronto e in via definitiva conduceva la crisi verso la sua soluzione[4].
Il 16 marzo, giorno della votazione della fiducia al nuovo monocolore DC, però Aldo Moro, suo fautore principale, veniva intercettato durante il tragitto dalla sua abitazione al Parlamento e gli veniva impedito di esprimere la sua preferenza[5].
Prima che il suo rapimento diventasse un fenomeno mediatico, pochissimi avevano sentito parlare del gruppo di guerriglia che se ne attribuì il merito: le Brigate Rosse.
I primi gruppi del brigatismo nacquero probabilmente nella zona di Milano all’inizio degli anni ’70, in seno a industrie come la Siemens-Sit o la Pirelli. Gli attivisti erano tutti giovanissimi, in maggioranza erano ex-lavoratori manuali indipendenti e solo in percentuali minori provenivano dagli ambienti studenteschi, dalla borghesia medio-alta, o dal sottoproletariato urbano. Tali gruppi basavano la loro azione sulla convinzione che il potere non si conquistasse per via elettorale. Inizialmente le loro mire erano basse e nulla avevano a che fare con Parlamento e partiti, si concentravano sulle dirigenze industriali e loro offensive erano di entità modesta. Progressivamente, però, si accorsero che, per realizzare un vero cambiamento, si sarebbe dovuto puntare più in alto. A metà degli anni ’70, iniziava la seconda fase e l’organizzazione incominciava a prendere di mira anche le forze politiche. La DC era uno fra i maggiori obiettivi nel mirino, in quanto ritenuta responsabile di essere in Italia l’asse portante dell’imperialismo delle multinazionali, che le BR combattevano[6]. Nel 1978, dopo isolati sequestri, di cui si ricorda in particolare il caso Sossi[7], le BR si prepararono a colpire i vertici della politica. Ciò significava colpire i vertici della DC. I candidati possibili erano tre -Andreotti, Fanfani e Moro-, ma scelsero Moro per questioni di praticità. Fu così che il 16 marzo 1978 scattò l’offensiva in via Mario Fani. Un gruppo di circa dieci o dodici uomini, più due motociclisti, prelevava Moro, dopo aver sterminato la sua scorta, per condurlo in un luogo segreto, dove sarebbe stato processato per le colpe del suo partito. Tra le accuse a lui rivolte non figurava nessuna menzione al monocolore Andreotti, né ai recenti sviluppi nei rapporti tra democristiani e comunisti.
Di fronte all’improvvisa notizia dell’agguato in via Fani, le forze politiche non poterono far altro che dare la fiducia al nuovo governo, cosicché si potesse passare al dibattito parlamentare il prima possibile[8]. Sin dalle primissime ore, si cercò di capire come comportarsi di fronte all’eventualità di un riscatto. Predominava la convinzione per cui non si sarebbe ceduto, di fronte a qualsiasi richiesta, in modo da non palesare alcun tentennamento dello Stato di fronte al terrorismo. Alla resa pubblica del sequestro, da parte della stampa e dei telegiornali, la popolazione reagì con un moto di solidarietà verso le vittime e le istituzioni.
Sin da subito, le forze di polizia e i servizi segreti vennero impiegati nella ricerca, migliaia di uomini furono mobilitati, ma una soluzione del caso sembrava alquanto lontana.
Il sequestro Moro si caratterizzò, rispetto ad altre vicende terroristiche, in quanto fu l’unico caso in cui vennero istituiti appositi comitati di crisi. Il primo era un comitato politico-tecnico-operativo, presieduto dal ministro dell’Interno Cossiga, che fu uno dei principali sostenitori della linea della “fermezza”.
Neppure la magistratura si dimostrò all’altezza della situazione, a causa di alcune deficienze strutturali. Lo stesso Luciano Infelisi, direttore delle indagini, fu costretto a operare senza adeguati rinforzi e più volte dovette perdere parte del suo tempo per presenziare a udienze di altre vicende.
Il 21 marzo entrava in vigore un decreto legge ad hoc, che prevedeva la figura delittuosa del sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione e prometteva una diminuzione di pena a chi, pur essendo coinvolto, dissociandosi dagli altri avesse cercato di rimettere in libertà l’ostaggio[9].
Da fine marzo, al prigioniero fu permesso di inviare lettere, la maggior parte delle quali era diretta alla sua famiglia. Ad esse si aggiungevano poi quelle rivolte ai colleghi -al ministro dell’Interno Cossiga, al segretario della DC Zaccagnini, a Fanfani, al Presidente del Consiglio Andreotti, a Piccoli, a Renato dell’Andro, a Riccardo Misasi- dove egli incominciava a sindacare la questione del proprio salvataggio, ancora prima che le BR avessero preparato un comunicato ufficiale[10].
Molti esperti si sono interrogati sulla presenza o meno di significati nascosti all’interno dei messaggi, sul possibile utilizzo di un linguaggio in codice, o il riferimento a questioni delicate che solo gli interessati potevano conoscere[11].
Lasciando da parte le illazioni, dai messaggi appariva già chiaro che l’unica alternativa alla morte di Moro era garantire la liberazione di alcuni prigionieri comunisti. I giornali, l’opinione pubblica e le forze politiche naturalmente si chiedevano se le lettere potessero considerarsi autentiche oppure se Moro fosse stato costretto a scriverle sotto dettatura. E’ probabile, come affermò più tardi il fratello Alfredo Carlo, che esse siano state frutto sia del condizionamento e delle pressioni dei brigatisti che del tentativo lucido di Moro di sfruttare a suo vantaggio la situazione per comunicare con l’esterno[12].
Il comunicato n.6, emesso il 15 aprile, informava chiaramente che il processo, cui il prigioniero era stato sottoposto, si era concluso con la dichiarazione della sua colpevolezza e l’annuncio di una sentenza di morte. Seguirono momenti di grande incertezza per lo Stato. Si era sviluppata ormai una certa sfiducia nei confronti degli organi di polizia preposti alle ricerche e molti già davano l’on. Moro per morto. Tra mitomani, falsi comunicati, burocrazia e false piste, sembrava che la sorte del malcapitato fosse già decisa, eppure si continuò a sperare fino all’ultimo. Cinque giorni dopo, il comunicato n.8 ribadiva quanto disposto dal precedente messaggio e aggiungeva che salvare la vita di Moro sarebbe stato possibile solo attraverso uno scambio di prigionieri comunisti. Un comunicato successivo ne avrebbe rese note le identità. La DC e il paese avevano esattamente quarantott’ore per prendere l’ipotesi in considerazione, ma sin dall’inizio parvero attestarsi sulla linea della fermezza e della ragion di stato raccomandata dal ministro dell’Interno Cossiga e dal Presidente del Consiglio Andreotti. All’indomani del comunicato, il PSI abbandonava la linea della fermezza e si attestava a difendere un obiettivo nuovo ponendo al primo posto la vita del prigioniero. Il PSI cercò, a partire da quel momento, di entrare segretamente in contatto con le BR, attraverso due rappresentanti dell’ultrasinistra, Lanfranco Pace e Franco Piperno. Costoro si impegnarono a convincere i brigatisti che l’esecuzione della sentenza emessa per Moro non avrebbe apportato alcun vantaggio all’organizzazione. Si è affermata l’ipotesi che l’esecuzione sia stata dilazionata proprio in virtù di tale contrattazione, nella speranza che anche la Democrazia Cristiana decidesse di rivalutare la propria posizione[13].
Si mobilitarono organizzazioni internazionali e umanitarie per mandare appelli alle BR e chiedere che la vita dello statista venisse risparmiata. Gli stessi inviti del papa, Paolo VI, e del segretario dell’ONU, Kurt Waldheim, restarono inascoltati.
Il 24 aprile, la lettura del comunicato n.8, che conteneva un elenco dettagliato di tredici prigionieri, fra cui spiccavano i nomi di Renato Curcio e Alberto Franceschini, non lasciava più alcun dubbio alle forze politiche: i brigatisti erano determinati ad andare sino in fondo.
Bettino Craxi continuava comunque a sollecitare i propri colleghi a non abbandonare la battaglia, convinto che potessero esserci altre strade per evitare il peggio senza dover cedere inevitabilmente al ricatto.
Il 30 aprile ebbe luogo l’ultima telefonata delle BR alla famiglia, in cui esse ribadivano quanto era già stato reso noto e nuovamente incoraggiavano ad attenersi ai patti e cedere allo scambio di ostaggi[14].
Il 9 maggio la tragedia si concretizzava col ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro in una Renault 4 rossa in via Caetani, quasi in una postazione strategica tra la sede della DC e quella del PCI. I tempi evidentemente lunghi della discussione politica non avevano prodotto i risultati sperati e avevano anzi finito con l’esasperare i brigatisti, che, temendo di non essere presi sul serio, si erano visti costretti a non procrastinare oltre. Si era effettivamente realizzato quanto preannunciato dall’ultimo comunicato, che risaliva alla data 5 maggio, dove si affermava che essi stavano eseguendo la sentenza.
Il 13 maggio, avevano luogo i funerali con rito solenne nella Basilica di San Giovanni in Laterano[15]. Il domani incerto cui aveva tentato di guardare lo statista, nel suo ultimo discorso politico, dove per la prima volta aveva mostrato difficoltà a tracciare i contorni del futuro, era il dopo-Moro.
Come bibliografia di riferimento, ho utilizzato i seguenti testi, per i tre articoli che avete letto:
- G. PALLOTTA, Aldo Moro, l’uomo, la vita, le idee, Milano, Editrice Massimo, 1978.
- F. PERFETTI, A. UNGARI, D. CAVIGLIA, Aldo Moro nell’Italia contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2011.
- R. MORO, D. MEZZANA, Una vita, un paese: Aldo Moro e l’Italia del Novecento, Soveria Manelli, Rubettino, 2014.
Ne consiglio la lettura o l’acquisto agli appassionati. Gli ultimi due sono libri più costosi e impegnativi, mentre il primo è abbordabile e facilmente rintracciabile su Amazon.
Ci tengo a raccomandare, inoltre, la visione della miniserie RAI, “Aldo Moro, il professore”, con l’ottima interpretazione di Sergio Castellitto, che è stata trasmessa l’anno scorso per il quarantesimo anniversario della sua morte. La trovate qui: https://www.raiplay.it/video/2018/04/Aldo-Moro-il-Professore-2b412d92-51ba-43ff-96e2-12336ed1120e.html

A cura di Franny.